mercoledì 27 maggio 2015

Manifesto della mercificazione dell'arte: Andy Warhol

“L’arte degli affari sta un gradino al di sopra dell’Arte. Ho iniziato da artista commerciale e voglio finire da artista degli affari. Dopo aver fatto quella cosa che si chiama “arte” o con qualunque altro nome la si voglia indicare, mi diedi all’arte degli affari. Dicevano: i soldi sono un male – lavorare è male. E invece fare soldi è arte, e gli affari ben fatti sono la migliore espressione d’arte. [...]
Era sufficiente per me il fatto che l’arte fosse stata incanalata nel commercio, fuori dal chiuso di certi ambienti, dentro il mondo della realtà.” (Andy Warhol).

Due note:
1- a me risulta che Warhol ha iniziato facendo foto e composizione per una rivista di scarpe (maschili),
2- la pop art, venuta ad emersione in Inghilterra ai primi anni cinquanta (Paolozzi e Hamilton su tutti, artisti vissuti fino a pochi anni direi mesi fa), non è affatto una forma artistica volta a semplificare e mercificare il rapporto tra fruitore e artista, anzi, al contrario. E' pur vero che anche grazie a un complesso gioco di speculazione, di cui diamo anche conto, almeno di alcuni meccanismi d'asta, Warhol ha assunto valutazioni stratosferiche, ad onta e dispetto di capolavori, non solo di contenuto ma anche in senso storico di Hamilton e Paolozzi, veri, geni, che si sono tenuti ben fuori da certi contesti speculativi.
Il punto è che nessuno ha in mente la facciona di Paolozzi, mentre tutti conoscono quella di Warhol, perché come Koons, ha fatto di se stesso la sua prima e più forte invenzione.
Per non dire nulla del più grande pittore vivente, l'espressionista astratto Soulage, che per vedere i suoi lavori, occorre pagare un biglietto, non potendo acquisire niente sul mercato (leggi mercanti e finanzieri vari). Vi sembra poco? Prendete un Bill Gates o altro mega miliardario che volesse acquisire un bel Solulage storico, primi anni cinquanta, di due metri per due metri: anche se disposto a offrire 50 milioni di dollari non ci sarà alcun mercante pronto a venderlo perché nessuno li possiede (tranne musei e enti pubblici mondiali).