venerdì 13 gennaio 2017

La cultura è un valore economico a prescindere. Ecco la neo vulgata sinistrese.

Quando sentiamo certe affermazioni di uomini di certo pseudo progressismo, del tipo: la cultura è un valore aggiunto della nostra economia e roba simile, e quando vediamo che a Firenze, sindaco Renzi, si affittano parti degli Uffizi e del Ponte Vecchio per scopi commerciali (cene e gozzovigloi vari, Ferrari eccetera), è chiaro che siamo di fronte alla apoteosi della cultura asservita all'economia.

E' l'andazzo del mondo, si dirà: giusto, è così, ma in Italia, come ìn Francia e Inghilterra, abbiamo tesori che datano mille e più anni, e considerarli al pari di una merce non sembra minimamente opportuno.
Ecco che poi arrivano, passando al contemporaneo, i nomi che sappiamo, con le loro continue trovate, tipo fare dei bidet tempestati di diamanti su colate d'oro e altre cialtronate simili, magari sponsorizzati dalla tale industria che produce water close e tutto si spiega e si capisce.
Eppure, ancora oggi ci sono persone che sono convinti di poter esprimere e trasmettere emozioni attraverso un banale quadro fatto di vernici o scolpendo un blocco di marmo, nonostante le continue derisioni e critica di inutilità e ripetizione. Certo, molto meglio forgiare dei bidet ai diamanti, fanno tanto cool!

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/l-arte-contemporanea-boiata-pazzesca.html

L’arte contemporanea?"È una boiata pazzesca"

Quattro italiani su 10 confessano di non capirla. E dinanzi a una tela a pallini di Hirst protestano: "So farla anch’io..."


Potremmo battezzarla Potionkin-Art. Tradotto: l’arte della «cagata pazzesca». Proprio come il «capolavoro» diretto da Sergej M.
Ejzenštejn, che tanto piaceva al capufficio del ragionier Fantozzi. 
Nel vernissage affaristico-globalizzato dell’arte contemporanea di corazzate Potionkin ne circolano tante, troppe. Per un artista che vale mille, ce ne sono almeno mille che valgono zero. E non sempre chi arriva al successo appartiene alla prima categoria. Anzi, ora padroneggiare la tecnica (essere cioè un bravo pittore nel senso più classico del termine) è visto quasi come un limite. 
Ad andare forte è invece il concettuale: talmente concettuale che - come dimostra un sondaggio condotto da Focus Extra, la rivista Gruner+Jahr/Mondadori diretta da Sandro Boeri - 4 italiani su 10 non la capiscono. 
Alla domanda «cosa pensi dell’arte contemporanea?», il 38% del campione la considera «un oggetto misterioso», anche se «ne è incuriosito e vorrebbe saperne di più». Tranchant il giudizio del 23%: «Non è vera arte».
Nello specifico, di fronte ad opere come quelle di Robert Ryman (che dipinge le tele solo di bianco), il 37% risponde «avrei potuto farle anch’io», mentre un altro 37% dice che «dovrebbe esserci qualcuno che me ne spieghi il significato»; solo per il 26% è «vera arte».
A proposito delle firme più provocatorie come Cattelan e Hirst, appena il 36% le ritiene «artisticamente valide»; i restanti si dividono tra chi pensa che «scioccare gli spettatori non è arte» (15%) e quelli secondo cui «far soldi in questo modo non è il mestiere degli artisti» (15%); per il 34% invece «suscitare emozioni di ribrezzo è fin troppo facile per considerare artista chi lo fa». 
Nonostante le perplessità però, quasi la metà degli intervistati (il 48%) concorda nell’affermare che l’arte di oggi si basa più sull’idea che sulle abilità manuali di chi realizza l’opera, mentre il 77% giudica l’arte in base all’emozione che suscita anziché sulla capacità di descrivere la realtà.
Intanto i critici assicurano che dietro la Potionkin-Art si nascondono «capolavori» in grado di «rivalutarsi nel tempo», rappresentando «ottimi investimenti». Nella maggioranza dei casi sono solo promesse-tarocche, ma qualche volta i miracoli avvengono davvero. Accendere la candela davanti al santo giusto è però impresa quasi impossibile.
Willy Montini - che sta ai televenditori d’arte come Messì sta al calcio - durante la prima lezione ai corsisti che ambiscono a fare il suo stesso mestiere, aveva sulla scrivania il libro di Francesco Bonami, «Lo potevo fare anch’io» (Mondadori): «Leggetelo, capirete molte cose», ha raccomandato Montini ai suoi futuri colleghi. Tutti, almeno una volta nella vita, davanti a un'opera d'arte contemporanea, abbiamo infatti pensato: lo posso fare anch'io. 
Carlo Vanoni (altro televenditore d’arte di gran razza) nota, giustamente, che sarebbe più corretto dire: lo posso «rifare» anch’io. 
E non è una differenza da poco.