Pierluigi Panza ci parla della trasformazione in quello che io chiamo Circo Socio-Mediatico, del creatore di arte, che lavora per entrare direttamente nei musei, senza passare per l'atroce filtro della battaglia con se stesso e con i suoi mezzi, ma sfruttando i mezzi potenti delle leve del mercato, per ascendere rapidamente tramite mostre, eventi ad hoc, installazioni in spazi pubblici mediati anche politicamente da chi cura la sua immagine artistica e personale, tutto volto a far entrare rapidamente le creazioni del nome in questione in uno dei 100 musei internazionali più quotati, far salire le sue quotazioni, mediante una serie di trucchetti, ad esempio riacquisto di opere (buy back) a prezzi certificati assai più elevati (ad esempio acquisto in asta opere che ho acquistato precedentemente a prezzi assai inferiori, per poter lanciare le quotazioni dell'artista produttore, e realizzare poi, sulle successive vendite, guadagni stratosferici; eccetera.
Dei tanti trucchetti, tutti ai limiti del lecito, parleremo in un prossimo articoletto, magari a seguire sotto questo.
Intanto vi dico che sono 35 anni che sento parlare delle performances straordinarie di Marina Abramovich e vi dico che sono e dico siamo pieni fino agli occhi di questa ormai imprenditrice della performance, fino agli occhi. Con tutti i soldi che ha fatto con i diritti d'autore delle immagini e installazioni, potrebbe ben ritirarsi no?
MA QUESTA È ARTE? - PIERLUIGI PANZA SPIEGA I MECCANISMI DI MERCATO DIETRO ALLE PERFORMANCE DELLA ABRAMOVIC, GLI SCANDALI DI CATTELAN E LE ACROBAZIE EROTICHE DI KOONS. OSSA, SESSO E BAMBINI IMPICCATI CHE SONO DIVENTATI COME UN DERIVATO FINANZIARIO, COME L'ACQUISTO DI ORO E PETROLIO
Biennale di Venezia, 1962: durante l' inaugurazione del presidente della Repubblica, l' artista Alberto Greco libera dei topi che prendono a correre tra la folla generando il panico - Nel 1997 Marina Abramovic si siede su una montagnetta di ossa bovine e le pulisce con una spazzola. Questo oggi vale come e più di un investimento in borsa..
PIERLUIGI PANZA L OPERA D ARTE NELL EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITA FINANZIARIA Nicoletta Orlandi Posti per “Libero Quotidiano"
Biennale di Venezia, 1962: durante l' inaugurazione del presidente della Repubblica, l' artista Alberto Greco da una gabbietta libera dei topi che prendono a correre tra la folla generando il panico. Dieci anni dopo Hans Hollein, professore dell' accademia di Dusserdolf, alla XXVI edizione presenta l' opera Santuario: un piccolo capanno di frasche contenente un pollo morto. Quello stesso anno Gino De Dominicis espone l' ormai celebre portatore di handicap: un ragazzo di 27 anni incontrato dalle parti del Castello di Venezia messo in mostra con al collo un cartello che rivelava il titolo dell' opera: Soluzione di immortalità.
Nel 1997 Marina Abramovic si esibisce in Balkan Baroque: l' artista sta seduta su una montagnetta di ossa bovine e le pulisce con una spazzola. Sono ossa appena spolpate e ancora maleodoranti: l' intenzione è quella di rappresentare l' atrocità del conflitto balcanico. E viene premiata. E ancora: nel 2004 Maurizio Cattelan appende all' albero di Porta Ticinese a Milano tre manichini-bambini vestiti di tutto punto con gli occhi spalancati.
Di fronte a tutto ciò in molti si chiedono: «Ma questa è arte?».
A questa domanda risponde il libro L' opera d' arte nell' epoca della sua riproducibilità finanziaria (Guerini, pp. 170, euro 16,50) nel quale l' autore, Pierluigi Panza, cerca di spiegare le dinamiche del mondo dell' arte per sottolineare come il successo di alcune attuali proposte post-estetiche sia determinato dal potere finanziario e della comunicazione.
L' analisi muove dalla considerazione che l' arte è un conferimento di valore su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Conferimento che oggi non è determinato dal giudizio critico-valutativo o da un soddisfacimento popolare (se non indotto), bensì sulla base di una costruzione del consenso tesa a creare un capitale di visibilità sull' artista o sull' opera che è elemento economico determinante in questa fase del Capitalismo estetico. Panza sottolinea come l' arte, dopo aver attraversato la stagione della sua riproducibilità tecnica descritta nel 1936 da W.Benjamin, è entrata negli ultimi decenni nell' era di una sostanziale riproducibilità finanziaria.
«L' opera», scrive l' autore, «oltre ad essere chiave d' accesso all' elite postmoderna, è diventata come un derivato finanziario, come un future. Ovvero una scommessa sul futuro, come l' acquisto di oro e petrolio. Chi ha acquistato negli ultimi anni la cosiddetta arte contemporanea, non ha acquistato un' opera con un suo valore estetico: ha acquistato una scommessa di tipo simbolico, come in borsa, su un segno». Questo processo di finanziarizzazione iniziò con Andy Warhol negli anni Settanta, quando l' idea di produzione dell' arte prevalse sull' idea di creatività.
Il pop utilizzò direttamente prodotti commerciali o note immagini pubblicitarie e fece della serialità un' arma commerciale come l' industria dei normali prodotti. Oggi, fa notare Panza, per un artista è più importante mettersi in scena che produrre opere: «Questa è una caratteristica ricorrente del Capitalismo estetico dove le merci vengono spettacolarizzate per valere e valgono in relazione al capitale di visibilità che il creatore ha acquisito». In questo meccanismo di costruzione del consenso un ruolo importante è anche quello dei critici.
Sono la «pedina nobile» all' interno di uno scacchiere governato da altri poteri, scrive Panza ricordando che al successo di artisti come Cattelan, Koons o Pistoletto fa riscontro quello di critici come Vittorio Sgarbi, Achille Bonito Oliva: oggi, anche al critico è richiesta la disponibilità di mettersi in gioco, a sapersi spettacolarizzare. La conclusione è che l' opera d' arte nell' epoca della sua riproducibilità finanziaria si dimostra come un caso di eterogenesi dei fini.

http://ilgiornaleoff.ilgiornale.it/2015/12/22/quel-saggio-di-panza-contro-gli-orrori-dello-sgunz-al-tempo-del-capitalismo-estetico/
La salvezza arriverà dai critici fuori tempo, i cosiddetti “scontemporanei”, o da chi si occupa d’altro, filosofi, scrittori, giornalisti. I curator sono troppo involved e con lo sgunz “ce campano”, per cui dagli organizzatori di questo circo Barnum non possiamo aspettarci pentimenti di sorta. D’altronde, come avrebbe detto nel “Colore dei soldi” il giovane Tom Cruise al vecchio maestro Paul Newman che gli rimproverava di tenere la stecca tipo mazza da baseball: “Se oggi tutti giocano così, vuol dire che si gioca così”. Una perfetta tautologia che regge l’art system e le sue bruttezze e che prova invece a scalfire Pierluigi Panza con un dotto saggetto in cui si analizza “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria” (Guerini 2015, pp.170, euro 16,50).
La tesi è ben sostenuta nella prima parte. Ci troviamo in una fase di Capitalismo estetico nel quale sono più importanti i simboli delle merci. L’arte da sempre è “un conferimento di valore”. Questo conferimento però non avviene più sulla base di un giudizio critico-valutativo, o di un soddisfacimento popolare, neppure sull’idea che debba sussistere un’aura. Bensì, mediante una costruzione a tavolino del consenso (attraverso mediatori, critici, musei e fondazioni…) tesa a creare un “capitale di visibilità” sull’artista o sull’opera che viene considerata un mero elemento economico; una specie di “azione” che quanto più velocemente viene scambiata tanto più accresce il proprio prezzo. In questo modo, si perde la possibilità che l’arte rappresenti un dimensione di “conoscenza alternativa” rispetto a quella della scienza, se ne disconosce paradossalmente il valore simbolico, l’utilità sociale o comunicativa, l’aspetto trascendente.
Meno convincente, invece, l’idea che si possa uscire da questo meccanismo retorico, attraverso nuovi approcci cognitivi, per esempio legati alla neuroestetica, per mezzo dei quali registrare il consenso o il dissenso di un’opera “artisticamente intenzionata” con un modello totalmente al di fuori di quello attuale.

Nella seconda parte, Panza si diverte a enumerare con sapido corredo iconografico gli orrori del contemporaneo e le scorciatoie dell’operare artistico. Per esempio, la dilagante zoofilia (animali vivi, impagliati, squartati, vilipesi) dai cavalli di Kounellis ai piccioni di Cattelan. L’utilizzo del corpo umano e le sue manipolazioni: dall’esposizione del ragazzo down di Gino De Dominicis nel 1972, alle più recenti indagini endoscopiche dedicate ai testicoli di Mattew Barney. Infine, il cipiglioso quanto inutile impegno politico degli artisti, dalle provocazioni dei Settanta fino alla Biennale 2015, vero motore della finaziarizzazione dell’arte, durante la quale nel più radicalchic spirito di contraddizione è stato letto il “Capitale” di Marx per sette mesi consecutivi.
Pierluigi Panza L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria
Pierluigi Panza L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria
Dal Corriere del Ticino http://www.cdt.ch/cultura-e-spettacoli/arte/144330/l-arte-di-oggi-%C3%A8-pubblicit%C3%A0-occulta

È accaduto di recente, e non è la prima volta, che un'opera d'arte contemporanea finisse in una discarica, scambiata per spazzatura dagli addetti alle pulizie del museo dov'era esposta. Segnale debole che qualcosa non va e non va da decenni. Che dire, poi, delle quotazioni stratosferiche di «oggetti artistici» che subirebbero la stessa sorte, se non ci fossero dietro interessi economici a sei zeri? Libri su questa deriva culturale ne sono stati scritti meno di quanto si creda. Uno dei più lucidi è appena uscito per Guerini: L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità finanziaria (pagg. 170, euro 16,50). Ne abbiamo discusso con l'autore, Pierluigi Panza, saggista, firma delCorriere della Sera e docente universitario.
Lei parla di «costruzione del consenso». L'espressione corre molto, anche in politica. Come la intende?
«Un artista realizza un'opera. Viene vista. I critici, sulla base delle proprie conoscenze, così si fa dal Diciottesimo secolo, ne danno un giudizio. La somma dei giudizi dà valore all'opera. Questo è quanto dovrebbe accadere. Non accade più. Oggi si costruisce il consenso. Intorno a un artista viene mosso un sistema di forze finanziarie e mediatiche che imbastisce una grande narrazione per sostenerlo e portarlo al successo. Cioè per dargli visibilità. La quale consente, di lì a poco, di raccogliere potere economico».
Come è strutturato il percorso?
«Se uno ha denaro, reti lobbistiche, forme di appartenenza o solo l'amicizia di qualche giornalista, inizia a far parlare di séindipendentemente dal valore dell'opera. Il metodo più usato è importato dal mondo della moda, che da anni realizza oggetti che non hanno di per sé particolare pregio, ma che lo acquistano mediante la costruzione di ottime narrazioni per venderli».
Spieghiamolo terra-terra.
«Attraverso uffici stampa, serate, eventi, cene e vernissage si fa conoscere un'opera d'arte di fronte alla quale l'assenza di un parere critico autonomo apre la strada al consenso. Si continua poi con le esposizioni e la chiacchiera dei giornali di cui magari sono proprietari gli stessi che acquistato le opere e se le scambiano a più alti livelli».
Un artista volenteroso di partecipare al sistema e non ancora «adottato», che mosse deve fare?
«Si faccia fotografare accanto a una celebrity, se riesce. Si può partire così. La celebrità di un settore, il cinema ad esempio, contribuisce a crearne un'altra in un altro settore. Oppure faccia sapere in giro che la gente famosa colleziona i suoi quadri. È il metodo di Julian Schnabel: di fatto, Richard Gere gliene ha acquistato uno per 12 milioni di dollari. Tutto questo lo definisco "biologismo estetico", un mare di contenuti che penetrano pervasivamente nel mondo degli osservatori attraverso tv, riviste, social network. A Madonna piace quello, ad Abramovich piace quell'altro, o meglio, alla moglie di Abramovich, Dasha Zhukova, che segue l'arte contemporanea. Il consenso è questo, un moto browniano delle opinioni, financo contrastanti, purché indirizzate sullo stesso oggetto».
E se un artista è un Segantini del Monte Generoso e rifiuta di scendere nelle valli del biologismo estetico?
«Peggio per lui. Dopo la guerra del Vietnam, con Andy Warhol, l'arte è diventata una scommessa. Prima era caratterizzata da un valore estetico e sociale; adesso meno è identitaria e meglio è per chi la vende. Più l'artista è intessuto di multiculturalismo, più la dinamica del biologismo estetico lo porta in alto e lo fa apprezzare. Ammettiamolo, è ben facile e seduttivo costruire una narrazione su un artista ribelle nato a New York da padre cristiano e madre musulmana, figlio di "vagamondi", che ha studiato in Giappone e in Brasile e che ha in curriculum esperienze LGBT tra Berlino e Londra. Provi lei, invece, a costruire consenso speculativo su un pittore, magari eccellente, che vive da tre generazioni nel Sottoceneri. Quest'ultimo sarebbe unfit in partenza per diventare una celebrity artistica».
La differenza, quindi, tra arte contemporanea e pubblicità?
«Se non è pubblicità è peggio, perché siamo nell'ordine della pubblicità occulta».
Parliamo comunque di investimenti di rilievo. Chi manovra, chi ci guadagna?
«Banche, società finanziarie, sceicchi, oligarchi, maison di moda. C'è Khalifa al-Thani, sorella dell'emiro, che col suo Qatar Museum Authority spende un miliardo di dollari all'anno in arte. C'è François Pinault, il magnate del lusso, ci sono, come si diceva, Abramovic e consorte. Plutocrati che acquistano un giorno uno yacht e l'altro un pacchetto azionario, un calciatore e, perché no, un'opera d'arte. L'oggetto non conta nulla, ciascuno scommette che riuscirà a sostenerlo. L'arte è un future, uno strumento di leva finanziaria».
Ma rende?
«Chiariamo che fin dall'inizio del '900 l'investimento in arte non è mai andato in perdita, eccezion fatta con la scuola di Barbizon e per un certo periodo dopo la crisi del 2008, compensato però dall'arrivo di acquirenti arabi e cinesi. Se poi io sono un operatore con grande disponibilità finanziaria, rilevo dieci artisti e li sostengo nel tempo, ecco che tutto gioca a mio favore. Se poi ancora sono Pinault e a Venezia riesco ad acquistare Palazzo Grassi e a ottenere in concessione Punta della Dogana e ogni anno organizzo cene ed eventi internazionali con celebrity per sostenerli... secondo lei rischio cadute di prezzo?».
È quasi la descrizione di una bolla. Chi rischia, allora?
«I piccoli collezionisti che comprano un artista che ritengono valido ma che non è "abbinato" al sostegno di questa élite globale. Prima del 2008 hanno provato pure loro a entrare nel mercato, vedendo che i margini salivano. Con la crisi è stato un bagno di sangue. Certo, se avevi in casa un Caravaggio, non temevi di perdere valore. Se possedevi un artista contemporaneo correvi a venderlo, dopo esserti accorto, terrorizzato, di essere il proprietario di un valore solo simbolico, sostenuto mediaticamente. E quando finiscono i soldi per tale sostegno, quel che ti ritrovi in mano è un bel niente. Trattasi di una bolla? Sì. Per fare un affare bisognerebbe essere un insider e telefonare a chi muove le leve: "Cosa compri il mese prossimo?". Tutto qui. Come vede, la questione del valore artistico di un'opera non la stiamo nemmeno sfiorando».
Mi scusi, senza banchieri e compagnia di giro non ci sarebbe stato il Rinascimento.
«Bene, allora guardiamo che accadeva in passato e che accade oggi. All'epoca pittori e scultori erano al servizio di corti o corporazioni, ricevevano un fisso o delle commissioni. A fine '700, l'artista iniziò a immettere le opere sul mercato. Come lo si pagava? Contavano la grandezza della tela, il tipo di cornice, i pigmenti, per esempio i lapislazzuli delle vesti costavano di più; se uno faceva teste, più difficili del cielo, guadagnava meglio; se il quadro non piaceva, l'acquirente chiedeva di rifarlo».
Ai nostri giorni?
«Se Damien Hirst vende all'asta 223 opere realizzate, come ha dichiarato, in due anni, vuol dire che lui e i suoi assistenti ne hanno assemblata una ogni tre giorni. Nel caso precedente, siamo di fronte a un'opera di valore riconoscibile e ragionevole; nel secondo a una celebrity che presta il proprio nome alla produzione mass market di oggetti d'arte il cui valore è dato dalla capacità, come si diceva, di costruire consenso. In altre parole, l'economia pre-finanziaria pagava in relazione alla produzione di un bene, quella odierna in relazione alla produzione di visibilità».
Caravaggio era stra-pagato, a dirla tutta.
«Mai irrazionalmente. Il valore dell'arte contemporanea, di contro, è disgiunto sia dai criteri di valutazione applicabili a un'opera di artigianato sia dai criteri di valutazione estetici che una critica fondata può attribuirgli».
Ci dica un'opera d'arte contemporanea che apprezza.
«La Vespa progettata dell'ingegner Corradino D'Ascanio. È nata da un disegno, poi da un prototipo, è stata messa sul mercato, è andata in società, ha trovato un consenso per nulla costruito, zero biologismo estetico, la forma è davvero accattivante. Un'opera d'ingegno e